Piccioni e Tortore dal collare

Il piccione rappresenta probabilmente la specie più “impattante” di volatili che si trova oggi a convivere con l’uomo nel suo ambiente urbano, per diversi aspetti:

grazie alla competizione pressoché nulla per l’occupazione dei siti di nidificazione, popola ogni tipo di edificio (civili abitazioni, capannoni industriali, impianti sportivi, …) imbrattandolo con le proprie deiezioni, la cui componente acida danneggia le pietre di palazzi e monumenti;

è molto rumoroso, creando disturbo nelle ore diurne;

è un veicolo di trasmissione di decine di malattie infettive anche gravi (Salmonellosi, Tubercolosi, Encefalite, …), in grado di contaminare esseri umani e animali domestici, tramite gli agenti patogeni contenuti nelle sue feci. Per essere contagiati non è necessario il contatto diretto: il vento stesso trasporta la polvere infetta delle deiezioni secche contaminando gli alimenti, la biancheria stesa ad asciugare, l’acqua;

i suoi parassiti, in particolare pulci, cimici, zecche ed acari, spesso causano forti infestazioni nei luoghi di nidificazione, soprattutto se realizzati in locali chiusi e ciò costituisce un grave problema igienico-sanitario poiché questi insetti costituiscono spesso la causa di gravi malattie infettive anche nell’uomo;

in agricoltura rappresenta una vera rovina nel caso di campi seminati a piselli, fagioli, mais, … anche per la carenza di specie predatrici.

La tortora dal collare orientale, originaria dell`Asia del sud, appare in Italia a cavallo tra le due guerre mondiali subendo da subito una velocissima espansione. Il nido è costruito sugli alberi di parchi e giardini e solo raramente su edifici, pertanto non entra direttamente in competizione con il piccione, del quale presenta però tutti gli aspetti negativi sopra richiamati. Pertanto al fine di mitigare l’impatto che queste specie riversano nell’ambiente antropico, è indispensabile:

  • > eseguire necessari e periodici interventi di pulizia e disinfezione degli spazi popolati da questi columbiformi;

> limitare al massimo le risorse alimentari a loro disposizione;

> adottare misure idonee ad impedire che questi animali riescano a posarsi e nidificare nei diversi tipi di immobili sopra citati;

> prevedere il loro contenimento numerico anche facendo ricorso al contributo di “doppiette” adeguatamente formate ed in possesso di tesserino di operatore faunistico rilasciato dalle Province al superamento di idonei corsi di formazione.

Olio D.o.p. Cartoceto

Alcuni storici fanno risalire l’origine di Cartoceto ai Cartaginesi che, scampati alla battaglia del fiume Metauro (207 a. C.), si sarebbero fermati sul posto formando i primi nuclei familiari. Cartoceto deriverebbe così da “Carchidon” o “Carthada”, nome greco di Cartagine, o dal latino “Carthaginensium coetus”, gruppo di Cartaginesi, da cui Carticetum. I territori, posti sotto la giurisdizione di Fano, costituivano una importante risorsa olearia: Cartoceto spiccava perchè primeggiava con le sue produzioni. L’olio prodotto ha rappresentato da sempre uno tra i beni più apprezzati e la Comunità si preoccupò, fin dai primi tempi, di vendere l’olio in piazza nei giorni di mercato. L’olio non serviva solo al fabbisogno del paese, ma era richiesto e apprezzato anche fuori regione. Diversi documenti attestano la notorietà, fin dal 1500, che aveva acquisito l’olio prodotto a Cartoceto.

In tavola – L’olio di Cartoceto ha dimostrato di possedere tutte le qualità solitamente riconosciute ad un buon extravergine: per questo rende appetitosa anche una semplice fetta di pane abbrustolito, possibilmente sul fuoco di legna . Baccalà e crostini all’olio di Cartoceto sono una semplice ma gustosa ricetta.

La conservazione – L’olio deve essere conservato in ambienti freschi, asciutti e lontano da fonti di calore, a una temperatura compresa tra i 14 e i 20°C. In questa situazione ottimale la qualità del prodotto resta integra per oltre tre anni. Con le basse temperature l’olio può andare soggetto a congelamento, per cui, prima di iniziarne il consumo, occorre riportare i recipiente a temperatura ambiente (16-18°) per alcuni minuti e agitarlo ripetutamente, per agevolare il ritorno del prodotto allo stato naturale.

Dove si produce – La zona di produzione della Dop Cartoceto interessa, nella provincia di Pesaro e Urbino, i territori dei comuni di Cartoceto, Saltara, Serrungarina, Mombaroccio e parte di quello di Fano.

Come si produce – L’olio extravergine di oliva Cartoceto Dop è prodotto principalmente dalle varietà di olivo Raggiola, Frantoio e Leccino e da altre varietà minori, come Raggia, Moraiolo o Pendolino. La raccolta delle olive è di tipo tradizionale, con pettinatura a mano o sistemi meccanici come rastrelli pneumatici o elettrici; sono invece vietati metodi come scuotimento, abbacchiatura o abscissione. La molitura viene effettuata entro due giorni dalla raccolta; le olive devono sostare solo poche ore nei frantoi. L’estrazione dell’olio mette in relazione il tipo di frangitura, le temperature e i tempi di gramolazione con il grado d’invaiatura ed il periodo di raccolta delle olive. Non è ammesso il metodo di trasformazione noto come “ripasso”; durante la trasformazione è vietato usare prodotti chimici o biochimici. È consentito soltanto la filtrazione con apparecchiature di tipo meccanico. Gli oli prodotti sono stoccati, fino al momento dell’imbottigliamento, in botti di acciaio inox condizionati con azoto.

Produttori di questo eccezionale D.o.p. si ritrovano anche all’interno del marchio centro del gusto.

 

Fonte: http://www.centrodelgusto.com/prodotti-tipici/olio-dop-cartoceto.html

Miglioramenti ambientali

Per “miglioramenti ambientali” si intendono tutti quegli interventi sul territorio volti ad aumentare la capacità dello stesso di fornire riparo e risorse alimentari alle diverse specie animali.

Detta attività riveste primaria importanza nella gestione faunistica del territorio anche se tale concetto risulta spesso poco noto agli addetti ai lavori o perlomeno non tenuto in debita considerazione.

Molto meglio lasciare colture a perdere a “macchia di leopardo” sul territorio, non solo quello sottoposto a tutela ma anche quello destinato alla caccia programmata, piuttosto che spendere risorse inutilmente in lanci di fauna selvatica d’allevamento.

I principali interventi di miglioramento ambientale possono essere così suddivisi:

 1. Colture a perdere, ovvero coltivazioni lasciate sul campo e non raccolte, al fine di fornire cibo e rifugio a diversi animali (appezzamenti di sorgo, di grano, di girasole, ancor meglio se misti tra loro o con erba medica);

2. Reimpianto di siepi, possibilmente costituite da essenze arboree ed arbustive autoctone, tra cui specie che producono bacche (biancospino, prugno selvatico, sorbo degli uccellatori, sambuco, ecc…) che maturino in differenti momenti. Le siepi, oltre che costituire cibo e rifugio per molti uccelli e mammiferi, rappresentano anche un importante elemento paesaggistico e di consolidamento del suolo, soprattutto se realizzate in terreni in forte pendio;

3. Ricostituzione di zone umide, anche di modeste dimensioni, per l’elevatissimo valore biologico di detti habitat, in particolar modo nel periodo del passo autunnale e del ripasso primaverile di specie legate all’ambiente acquatico (anatidi, rallidi, limicoli);

4. Posticipo dell’aratura dei terreni ove possibile, visto il tipo di coltura che andremo a mettere a dimora. L’esistenza di stoppie di cereali, di sorgo, di girasole, di granoturco, costituisce durante l’inverno un sicuro luogo di alimentazione per molte specie, dal fagiano al colombaccio, alla starna, alla lepre.

Inquinamento da piombo

Ha suscitato perplessità tra i cacciatori quella disposizione del calendario venatorio regionale che recita “Nelle Zone di Protezione Speciale e nei Siti d’Interesse Comunitario è vietato l’utilizzo di munizionamento a pallini di piombo all’interno delle zone umide, quali laghi naturali ed artificiali, stagni, paludi, acquitrini, lanche e lagune di acqua dolce, salata, salmastra, corsi naturali … e corsi d’acqua artificiali, nonché nel raggio di 150 m dalle rive più esterne a partire dalla stagione venatoria 2008/2009”. Il piombo è un metallo che ha esclusivamente effetti negativi sulla nostra salute in quanto non svolge alcuna funzione essenziale nel corpo umano ma può solo causare seri danni in seguito al suo assorbimento tramite cibo, aria o acqua: coliche addominali, disfunzione cerebrale, anemia, danni al sistema nervoso, al fegato e ai reni. Molto più degli esseri umani, tutti gli uccelli acquatici appartenenti alla famiglia degli anatidi (anatre, oche, cigni, …) ed in minor grado anche altre specie frequentanti gli stessi habitat (limicoli in genere) sono interessati dall’inquinamento permanente da piombo degli ecosistemi acquatici, poiché possono inghiottire considerevoli quantità di pallini di piombo mentre si alimentano. Anche livelli bassi di ingestione di pallini in piombo possono determinare l’insorgere dei disturbi sopra descritti che prendono il nome di “saturnismo”. Il fenomeno del saturnismo è stato inoltre riscontrato pure in altre specie fra cui i rapaci e i fenicotteri. È noto che le anatre in generale si nutrono, oltre che di piante acquatiche e microorganismi trattenuti filtrando l’acqua, anche “vagliando” il fango del fondo dei bacini nei quali si posano alla ricerca di cibo: un pallino di piombo è spesso ingerito perché scambiato per un seme o per un sassolino necessario a triturare semi e/o bacche nel ventriglio dell’animale. Se pensiamo a quante cartucce vengono sparate in alcuni “… laghi naturali ed artificiali, stagni, paludi, acquitrini, lanche e lagune di acqua dolce, salata, salmastra, corsi naturali … e corsi d’acqua artificiali,” la norma iniziale diventa condivisibile. Gli effetti che derivano dall’avvelenamento da piombo rendono gli esemplari contagiati dalla malattia anche più esposti alla predazione poiché essi manifestano indifferenza all’uomo e quasi rifiuto ad alzarsi in volo, anche se disturbati. Inoltre, per la degradazione nell’ambiente dei pallini da caccia sono necessari svariati anni a seconda delle caratteristiche chimico-fisiche del terreno. L’alternativa al piombo esiste ed è rappresentata da munizioni con pallini in acciaio, al bismuto o in leghe di tungsteno, assimilate al piombo come prestazioni rispetto all’arma. 

Incendi

Gli incendi costituiscono un annoso problema che sempre più è concatenato a questioni quali i cambiamenti climatici che si stanno verificando negli ultimi anni (aumento della temperatura media, periodi di siccità prolungata, …) e mutamenti di vita delle comunità antropiche residenti nelle zone montane e rurali.

Nel passato più recente gli incendi hanno provocato un allarme crescente poiché si sono sviluppati con maggior frequenza in aree vicine ai centri abitati, a causa del progressivo abbandono verificatosi delle cure selvicolturali. La strategia vincente per combattere e tentare di debellare questo fenomeno, consiste nella contemporanea adozione di diversi provvedimenti:

– creare una costante sinergia collaborativa tra i diversi Enti (Corpo Forestale dello Stato – Dipartimento della Protezione Civile – Vigili del Fuoco – …) ed i volontari di associazioni venatorie ed ambientaliste;

– attuare la cosiddetta “prevenzione selvicolturale”, ovvero l’adozione di tecniche di coltivazione agraria e boschiva mirate a consentire un rapido ed efficace intervento;

– corsi volti ad elevare la professionalità degli operatori che dovranno poi essere dotati di efficaci mezzi ed attrezzature.

Capita spesso di sentire sui media nazionali e locali che la popolazione dei cacciatori sia ritenuta fortemente indiziata della responsabilità di incendi anche di notevole entità: appare pertanto opportuno e doveroso sfatare questa opinione scorretta sotto un duplice aspetto.

Da un lato la normativa nazionale e locale concorrono nel vietare l’esercizio venatorio per svariati anni nei territori percorsi dal fuoco, dall’altro quasi nessun tipo di specie di fauna selvatica riuscirebbe a sopravvivere in un bosco incendiato o in un calanco completamente privo di vegetazione perché bruciata, habitat privi sia di rifugi che di risorse alimentari. In molte realtà locali italiane, al contrario, le associazioni venatorie prestano volontariamente servizio per avvistare in tempo focolai d’incendi in zone particolarmente a rischio e prevenire ulteriori pericolosissimi sviluppi. Sempre i cacciatori poi sono stati coloro che hanno costantemente osteggiato più di ogni altro l’antica pratica della bruciatura delle stoppie, fenomeno oramai in disuso perlomeno nella nostra regione, tecnica agricola che tanti danni ha arrecato a covate, nidiacei e piccoli nati di fauna selvatica.

Fonti alternative di energia

Con questa definizione intendiamo tutte quelle fonti di energia diverse dai combustibili fossili, ovvero da quelle sostanze che sono derivate dal seppellimento di grandiose masse di sostanza organica avvenuto milioni di anni fa. Mentre tali combustibili tradizionali, vale a dire petrolio, carbone e gas naturale, costituiscono uno stock “finito”, le fonti alternative di energia sono rinnovabili e quindi il loro utilizzo non pregiudica l’esistenza di risorse naturali per le generazioni future. Le più importanti fonti di energia alternativa sono costituite da – energia idroelettrica, – energia eolica, – energia solare (impianti fotovoltaici), – energia nucleare, e nel medio e lungo periodo saranno sicuramente quelle da privilegiare rispetto ai combustibili fossili, sia per la loro disponibilità praticamente illimitata, sia per il loro impatto ambientale potenzialmente pari a zero. Il cacciatore, in quanto soggetto interessato ad operare in un contesto di corretta gestione ambientale a 360°, privilegerà sicuramente queste fonti di energia, conscio però che anche esse, se gestite non correttamente, possono essere causa di gravi scompensi nei diversi habitat. La captazione di acqua dai nostri fiumi per l’alimentazione di centrali idroelettriche deve avvenire garantendo sempre il “minimo deflusso vitale”, cioè una portata a valle dell’opera di presa tale da permettere il proseguimento ottimale della vita nell’ecosistema, sia a livello faunistico che vegetazionale. Le pale eoliche sono indubbiamente una delle fonti di energia più pulite ma la loro localizzazione deve sempre tener conto dell’impatto paesaggistico e dell’esistenza o meno di linee di affilo per le migrazioni degli uccelli. Gli impianti fotovoltaici se realizzati al posto di tetti tradizionali di edifici civili e industriali o quali coperture di parcheggi di vaste dimensioni, ad esempio in grandi centri commerciali, sono sicuramente una splendida soluzione al problema del fabbisogno energetico, molto meno se costruiti al centro di fertili pianure o addirittura all’interno di aree protette per la fauna selvatica. I problemi derivanti dalla costruzione e/o gestione non oculata di una centrale nucleare, oltreché quelli che derivano dallo smaltimento delle scorie radioattive, sono noti a tutti e basta evocare il nome di Chernobyl per suscitare in ciascuno di noi un giustificato terrore. Concludendo quindi, sì alle fonti energetiche alternative ma a condizione che anche esse siano sottoposte ad un attento ed approfondito studio di impatto ambientale preventivo alla loro realizzazione e ad un continuo e accurato monitoraggio sul loro funzionamento.